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La nuova ospitalità tra tecnologia e filosofia

Intervista a Simone Puorto, un “bodhisattva digitale”. Con le sue riflessioni anticipiamo alcuni dei temi più attuali che tratteremo durante l’evento a Firenze nel topic Hospitality.

Il tuo speech a BTO si intitola “Zero-Click, Zero-Friction: ripensare l’hospitality”. Cosa intendi? 

Stiamo vivendo una trasformazione radicale, in cui l’esperienza di chi viaggia e quella di chi gestisce un hotel si intrecciano in un sistema che rimane però ancora faticoso e carico di attriti. Cercare un albergo è complicato, gestirlo lo è ancora di più, eppure ci muoviamo dentro un impianto costruito con logiche vecchie e stratificate. 

Dal lato dell’ospite, il mondo dei “dieci link blu di Google” è ormai archeologia. Più del sessantacinque per cento delle ricerche oggi non porta nemmeno a un clic, perché la risposta è già incorporata nei sistemi di intelligenza artificiale generativa. Questo significa che la visibilità di un hotel non dipende più dal posizionamento su una classifica SEO, come avveniva dieci o venti anni fa, ma dalla sua capacità di esistere dentro la narrazione che i modelli linguistici producono. Continuare a parlare di motori di ricerca, disintermediazione o destagionalizzazione come se fossimo ancora nel 2005 significa affrontare un problema inedito con strumenti che appartengono al passato. 

La Generative Search cancellerà la SEO per come la conosciamo. Il funnel classico sparirà con l’avvento del web zero-click. Gli agenti AI diventeranno “do engines” più che motori di ricerca. Il conversational reporting sostituirà dashboard e BI: non consulteremo più grafici, ma porremo domande ai dati. I digital workers, ibridi tra biologico e artificiale, diventeranno una presenza concreta. E in un mondo sintetico il tempo con un essere umano diventerà un bene di lusso, ciò che io chiamo paradigma “humans-as-luxury”. 

E la complessità non riguarda soltanto la visibilità, ma la gestione quotidiana. Molti hotel lavorano ancora con sistemi chiusi, tecnologie che non comunicano, procedure obsolete che rallentano ogni processo e rendono ogni integrazione un ostacolo. 

La vera domanda diventa allora: cosa succederebbe se ripensassimo da zero l’intero flusso, includendo sia chi viaggia sia chi lavora in hotel? Se l’ospitalità diventasse più fluida, più leggera e allo stesso tempo più intelligente, capace di liberare tempo ed energie? Paradossalmente, proprio questa fluidità tecnologica potrebbe restituirle una dimensione più umana. 

Ma un po’ di suspence sulla risposta definitiva lasciamola per il palco… 

Sei stato tra i precursori nell’adozione di modelli AI nel settore in Italia, sia come consulente e board advisor che come fondatore di startup: cosa hai imparato? 

Ho imparato che ogni innovazione custodisce sempre un paradosso. Nel caso dell’intelligenza artificiale, il paradosso è che proprio mentre tutti la nominano ossessivamente, essa in realtà̀ non conta nulla. Presto sarà̀ ovunque, e proprio per questo smetteremo di parlarne. Vuoi un’analogia? Non serve conoscere il funzionamento di un protocollo IP per avere un sito, né padroneggiare l’architettura del web per navigarlo. Il web è diventato un sovrapensiero, una presenza naturale, quasi invisibile. Lo stesso destino attende l’AI. 

Cinque anni fa servivano milioni per costruire ciò che oggi si realizza con costi marginali, praticamente nulli. Il vantaggio competitivo non è più nel possesso né nella capacità di costruire da zero, ma nella velocità con cui si riassemblano moduli già disponibili, nella flessibilità con cui si cambia rotta, nella capacità di non innamorarsi mai delle proprie intuizioni. 

Per questo non credo che tra cinque anni parleremo ancora di aziende verticali di AI nel travel. Vedo piuttosto un paesaggio fatto di ecosistemi modulari, agenti, MCP e API che funzionano come neuroni di una rete diffusa, generando esperienza e servizio in modo naturale e quasi invisibile. Non mi sorprenderei se entro il 2030 gli RMS svanissero del tutto, sostituiti da un agente agnostico di OpenAI o Google collegato al layer ARI, capace di orchestrare PMS, channel manager e booking engine senza che nessuno lo chiami più “AI”. 

Già oggi vediamo decine di soluzioni che si presentano come specifiche per l’hospitality, ma la traiettoria è chiara: l’intelligenza artificiale diventerà un layer trasversale, neutro, integrabile ovunque, così come è avvenuto con il web. Non esiste un “web per hotel”, e non esisterà una “AI per hotel”. Tutto sarà plug-and-play, e il vero vantaggio competitivo non starà più nel software in sé, ma nella capacità degli hotel di orchestrare quell’ecosistema con architetture leggere, scalabili e pronte a mutare. 

Parli di “ospitalità più umana” proprio nel momento in cui aumentano automazione e intelligenza artificiale. Come si tiene insieme questa apparente contraddizione? 

La contraddizione esiste solo nella percezione. L’automazione non sottrae umanità, sottrae attrito. Una reception che deve riconfermare manualmente ogni prenotazione non è più “umana” perché occupata in mansioni burocratiche; è semplicemente meno libera. Restituire tempo alle persone significa restituire la materia prima dell’ospitalità. L’umanità non si misura dalla quantità di sorrisi prefabbricati che distribuiamo, ma dalla qualità dell’attenzione che possiamo donare quando davvero serve. 

Il paradosso è che più deleghiamo alla macchina ciò che è impersonale, più diventa rara e preziosa l’interazione personale. Pensare che tecnologia e umanità siano opposte è un riflesso condizionato, una gabbia del pensiero binario, tutta occidentale. In natura nulla è davvero duale. Wittgenstein ci ricorda che i limiti del nostro linguaggio sono i limiti del nostro mondo: se continuiamo a pensare in termini di opposizioni rigide, vedremo conflitto anche dove esiste solo continuità. La parola stessa è frattura. 

Le distinzioni fra umano e macchina, fra pensiero e azione, fra realtà e simulazione si dissolvono. Non è l’AI a diventare umana, siamo noi a renderci imitabili. Riduciamo la lingua a emoji, deleghiamo la memoria al cloud, ci semplifichiamo fino a renderci clonabili. Ciò che resta irriducibilmente umano non è l’intelligenza, ma l’angoscia esistenziale, la consapevolezza della finitudine. Nel lavoro vedremo una polarizzazione: da una parte automazione totale, dall’altra ruoli iperumani. Alla fine l’AI svanirà come oggetto separato, diventerà lo sfondo invisibile della nostra vita, come oggi Internet. 

Negli ultimi anni hai lavorato come board advisor con diverse aziende tecnologiche. Dal tuo osservatorio privilegiato, quali errori vedi ripetersi più spesso negli approcci delle startup che si muovono nell’hospitality tech? 

L’errore più frequente è confondere la tecnologia con la soluzione, dimenticando che la tecnologia è un mezzo, non un fine. Molte startup sono ossessionate dalla feature, dal “cosa fa” il loro prodotto, e raramente si chiedono “perché dovrebbe servire a qualcuno”. Il secondo errore è la verticalizzazione estrema, costruire un micro-tool che risolve un dettaglio senza chiedersi come si inserirà in un ecosistema già saturo di interfacce, PMS, RMS, CRM e così via. Gli hotel non hanno bisogno di un altro software isolato, hanno bisogno di coerenza, di flussi integrati, di semplificazione radicale. 

Infine noto spesso un deficit culturale: molti new player parlano di hotel tech senza aver mai lavorato un giorno in hotel. La tecnologia senza esperienza dell’ospitalità diventa un simulacro. 

Agli studenti MBA ai quali insegno (che saranno i nuovi CEO delle aziende travel tech del domani, non dimentichiamocelo) quando discuto di tecnologia, business ed etica, ripeto che si stanno formando per lavori che non esisteranno. Non bisogna innamorarsi del cosa, ma del perché. Il cosa cambierà cento volte, senza chiedere il permesso. La vera competenza è coltivare uno sguardo senza mura, capace di rinunciare all’opinione fissa. È lì che si aprono le possibilità. Se riuscissi a insegnare soltanto questo, il mio lavoro sarebbe compiuto. 

Per chi non conoscesse Simone Puorto, gli abbiamo chiesto di presentarsi. 

Hai presente quell’intervista tra David Lynch e Harry Dean Stanton? Lynch gli chiede: “Come ti descriveresti?”. Stanton risponde: “Come niente. Non c’è un sé”. Ecco, quella frase mi somiglia: non credo che la mia identità sia poi così importante, conta piuttosto che, per una serie di coincidenze, mi ritrovo spesso immerso in contesti imprevedibili e circondato da persone straordinarie, come tutto il team del BTO! Per questo più che un protagonista mi sento un’antenna che intercetta e amplifica possibilità. 

Se invece vuoi la marchetta “da LinkedIn”, allora mi piace definirmi un tecnofilosofo. Da oltre venticinque anni lavoro nell’intersezione tra turismo e tecnologia, ho scritto cinque libri e centinaia di articoli (molti come ghostwriter o sotto pseudonimi), collaboro con Hospitality Net come Head of Emerging Trends & Strategic Innovation (che è un titolo altisonante per dire che cerco di capire cosa accadrà l’anno prossimo) e affianco aziende tech come board advisor e consulente: BWG Strategy a New York, RobosizeME, Sleap.io, E23 e una dozzina di altre realtà che vanno da PMS a RMS fino a startup di automazione e AI e che non posso menzionare in quanto sotto NDA. 

In passato sono stato direttore generale di un piccolo gruppo di boutique hotel a Roma e ho lavorato in una grande web agency americana, ma circa dieci anni fa ho lasciato il corporate per creare i miei progetti: Travel Singularity, la mia boutique di consulenza; Rebyū, la startup di AI per la gestione delle recensioni; ed Elegia, lo studio creativo che esplora i legami tra AI, design umano-centrico e ospitalità. 

Cos’altro? Qualche anno fa ho organizzato il primo evento del settore interamente nel metaverso, per me più che altro un esercizio di immaginazione. 

Però la mia storia non comincia in un hotel, comincia con la filosofia. Da ragazzo volevo insegnarla… Ero ossessionato da Günther Anders e dall’idea di obsolescenza umana e riflettevo su cosa significhi essere uomini in un mondo dominato dalla tecnologia. Per mantenermi agli studi cercavo un lavoro che lasciasse spazio mentale e scelsi di fare il portiere di notte: poche persone, tante ore tranquille per studiare. Sembrava perfetto, ma a fine anni Novanta gli hotel funzionavano ancora con carta e penna (alcuni lo fanno ancora…). Per non impazzire, creai un rudimentale proto-PMS che semplificava prenotazioni e check-in. Funzionava così bene che il proprietario mi promosse al turno di giorno: per me fu quasi una punizione, meno Nietzsche e più reclami, ma fu anche l’inizio inatteso della mia carriera. Avevo vent’anni… 

A venticinque guidavo già un team MICE di trenta persone. A trent’anni ero GM di un piccolo gruppo di boutique hotel che avevo co-fondato e battezzato “Dharma” ispirandomi a Lost, serie che ho sempre amato per i suoi rimandi metafisici e per la mia stessa confessione spirituale (sono buddhista). Col tempo ho capito che la mia inclinazione non era tanto nell’operatività quotidiana, ma nel riconoscere pattern, nel connettere mondi lontani, nel leggere i sottotesti della tecnologia e della società e quindi eccomi qui… 

Negli ultimi dieci anni ho anche molto aumentato la mia presenza nel mondo accademico e sono guest lecture in diversi MBA ed executive program, da EHL a Losanna a ESSEC, da Glion all’italianissima LUISS, passando per IULM, Roma Tre, Università di Parma, SHMS, 24Ore Business School e tante altre. Lì ho sempre portato lo stesso messaggio: il punto non è innamorarsi dei tool, ma capire i pattern profondi che li muovono. 

Ecco perché mi sono autoaffibbiato il nickname di “bodhisattva digitale”: un modo ironico e insieme serio per dire che la mia traiettoria è sempre stata la stessa, partire dalla filosofia, passare per le notti insonni in reception, arrivare all’intelligenza artificiale e continuare a chiedermi cosa resti, in tutto questo, irriducibilmente umano. 

L’intervista riguarda il topic “Hospitality” ed è stata curata dal coordinatore scientifico del tema, Nicola Zoppi.
Ti aspettiamo a BTO – Be Travel Onlife per ascoltare dal vivo Simone Puorto.
L’appuntamento è a Firenze l’11 e 12 novembre 2025.